Page 137 - Goya y el mundo moderno
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   Valeriano Bozal
Disparates. Comico e grottesco
1È. Spropositi
difficile dimenticare le immagini dei Dispara- tes una volta che le abbiamo viste, anche se non siamo in grado di indicare con precisio- ne che cosa rappresentano. Non scorderemo mai le figure esposte alle intemperie sul ramo di un albero, in uno spazio indefinito, crepuscolare, del Dispara- te ridicolo (cat. XX) e neppure l’uomo che vola nel silenzio della notte in Modo di volare (cat. XX), quel silenzio non potremo mai dimenticarlo. Ci diverte la paura dei soldati che si svegliano e corrono spaven- tati dal fantoccio del Disparate pauroso (cat. XX) e ci paralizza la violenza del picador del Disparate fu- rioso (fig. 1), non meno della tragedia di chi non può scindersi – qualcosa di più che separarsi – in Dispa- rate matrimoniale (fig. 2), non solo per la sofferen- za delle due figure che compongono un unico mo- stro, ma anche per il “coro” che assiste, come noi, alla scena.
Un avvicendarsi di scene, non un racconto li- neare e ordinato in una sequenza narrativa coeren- te. I tentativi di ricrearla sono stati vani: le incisioni sono restie a narrare una storia e, quindi, a domi- nare l’incubo grazie al racconto – narrare è un mo- do di ordinare, dominare – preferiscono presentare momenti, situazioni. Lo sproposito e l’incubo sono parte di ciascuna delle immagini come lo è la realtà, lo sproposito e l’incubo irrompono nella realtà e non risultano meno potenti in quanto irrazionali o ina- spettati: al contrario.
Come possiamo difenderci dal cavallo che ci ra- pisce e dai ratti/collinette che ci divorano (Cavallo
rapitore; cat. XX), dal guerriero che è un burattino di legno (Che guerriero!; cat. XX)? Possiamo forse divertirci con il carnevale grottesco di Disparate di carnevale (cat. XX)? Non dovremmo restare sorpresi dalle scene circensi in cui un equilibrista cammina sul filo (Una regina del circo; cat. XX) e un elefan- te entra in pista (Altre leggi per il popolo; cat. XX)? Cosa dire della Pioggia di tori (cat. XX), qual è il suo senso più profondo, è un’allegoria, una visione? Siamo noi quei vecchi, quelle fanciulle, quella ma- rionetta, quell’asino? Certamente sì. Goya ha crea- to quelle figure per avvertirci dell’esistenza di esseri del genere o per suggerirci di guardare noi stessi in quegli specchi? Esistevano di certo, e certamente esi- stono, esseri del genere. Li vediamo quando ci guar- diamo allo specchio; molto tempo dopo Goya, An- tonio Saura ha saputo dirlo/dipingerlo senza incer- tezze (cat. XX). E Saura non è stato l’unico, con lui Jorn, Michaux, Masson, Kubin (cat. XX) e tanti al- tri sui quali sarà doveroso tornare più avanti.
È stato Stendhal a parlare dello specchio lungo la strada maestra. Ci consentiremo un po’ di ironia: lo specchio non viene sempre trasportato lungo la strada, la maggior parte delle volte lo abbiamo den- tro casa, nel bagno, in salotto, in camera da letto. Stendhal lo sapeva bene: il suo percorso non è un paesaggio, anche Balzac e Flaubert lo sapevano. Goya ha sopravanzato tutti: ha sistemato lo spec- chio sul ciglio dei nostri sogni, quelli che facciamo quando dormiamo, ma soprattutto quelli che fac- ciamo da svegli. Walter Benjamin ha parlato della fantasmagoria delle immagini come verità del mon-
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